Boom del biologico, prezzi più alti?

Si espandono le colture organiche ma c'è chi dice sia peggio per l'emergenza alimentare.

Le vendite di prodotti biologici hanno avuto un boom negli ultimi anni e la loro produzione è cresciuta di conseguenza.
Nell'area Ocse è la Svizzera ad avere destinato la percentuale più alta di terre coltivabili all'organico, passando dal 2% degli anni Novanta all'attuale 10%.
Anche l'Italia - che per il "mangiare sano" ha un vero e proprio culto - fa parte dell'elite amica del biologico. Con il nostro 7% siamo nettamente al di sopra della media Ocse (inferiore al 2%), per non parlare dello zero virgola qualcosa degli Usa.

Ma il problema è che a fronte dell'emergenza alimentare globale, l'organico sembra un lusso per ricchi. Non è infatti un mistero che le coltivazioni biologiche producono molto meno dei metodi intensivi convenzionali, quindi per avere una medesima quantità di prodotto si dovrà coltivare più terra.
L'organico dunque è sostenibile? Non contribuisce forse ad aumentare i prezzi alimentari, sottraendo preziosa terra a uno sfruttamento intensivo?
Norman Borlaug, il padre della "Rivoluzione Verde" degli anni Sessanta è uno dei più convinti avversari del biologico. Secondo i suoi calcoli le coltivazioni organiche potrebbero sfamare al massimo 4 miliardi di persone e solo espandendosi fino a distruggere numerosi ecosistemi.
I sostenitori del biologico sostengono invece che le colture organiche non impoveriscono la terra e producono meno inquinamento dei metodi intensivi, pur essendo potenzialmente in grado di sfamare l'intera popolazione mondiale.
Secondo un rapporto Fao, al mondo c'è già abbastanza cibo per sfamare circa 12 miliardi di persone (cioè circa il doppio della popolazione attuale). Il problema è che gli abitanti dei Paesi più poveri non hanno i soldi per comprarlo, perché le loro economie sono sostanzialmente saccheggiate dalle economie forti.

Il problema della crescita dei prezzi alimentari è del resto legato a un certo numero di fattori, non ultimo la speculazione finanziaria che dal mercato dei derivati - in crisi - si è trasferita sulle commodities.
Pare però che giochino un ruolo preponderante gli stili di vita - e quindi anche alimentari - della popolazione mondiale. Il punto è che sempre più abitanti dei Paesi emergenti (e i loro governi) puntano a standard di benessere simili, se non uguali, a quelli del mondo ricco.
Un esempio che viene dalla Cina è utile per comprendere cosa sta succedendo - anche se con numeri, tempi e dettagli variabili - in tutte le economie emergenti.
James Rice, responsabile per la Cina di Tyson Foods - il maggiore produttore mondiale di carne - calcola che il Dragone, finora autosufficiente, nel 2010 importerà proteine per un valore di 4,5 miliardi di dollari. Non si sta parlando di pillole, ma letteralmente di pollame, maiali, bovini.
Al di là della Grande Muraglia, il consumo di carne è più che raddoppiato nell'ultimo ventennio: negli anni Ottanta, ogni cinese consumava in media 20 kg di carne all'anno, oggi siamo a 54 kg.
Il fatto è che esiste un nuovo ceto medio di 150 milioni di persone che dovrebbe raddoppiarsi nel giro di 10 anni. E con lui raddoppia anche il consumo di proteine (si consideri che un americano medio viaggia sui 124 kg di carne all'anno).
Di conseguenza, i prezzi crescono a livello internazionale.

Non solo: le esigenze dell'allevamento fanno sì che si riducano le terre coltivate per lasciare spazio ai pascoli.
A questo si collega il fenomeno dell'urbanizzazione, per cui milioni di ex contadini si stanno trasferendo in città dove, da produttori agricoli, si trasformano in consumatori.
Fatto sta che l'anno scorso il totale della terra arabile in Cina si è ridotto a 1,2 milioni di kmq, solo 10mila in più del minimo calcolato per sfamare la popolazione. A breve, il Dragone dovrà diventare un importatore netto anche di prodotti della terra.
I nuovi consumi "middle-class", soprattutto di carne, trainano così tutti i prezzi alimentari.

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